Vivian Bellis. Gumbs, anche se avesse potuto affettare una simile voce da tenore, non avrebbe mai detto «Oh, cielo!». Né l'avrebbe fatto la signorina McCarthy.

I nervi scossi di George stavano tornando alla normalità. Pensò intensamente. Ho paura, mi crescono le gambe. Vivian Bellis si spaventa, e sviluppa una voce telepatica. È ragionevole, immagino... il suo primo e unico impulso sarebbe quello di mettersi a gridare.

George cercò d'immergersi nella condizione mentale di urlare. Chiuse gli occhi e immaginò se stesso imprigionato in un terrificante ambiente alieno, senza nessun controllo o coscienza della sua situazione. Cercò di urlare: «Vivian!».

Continuò nei suoi tentativi, mentre la voce della ragazza esplodeva a intervalli in nuovi accessi di terrore. Alla fine, s'interruppe nel mezzo di una frase.

George chiese: «Mi senti?».

«Chi è? Cosa vuoi?»

«Sono George Meister, Vivian. Riesci a capire quello che sto dicendo?»

«Cosa...»

George continuò. Giudicò che la sua pseudo-voce fosse un po' ingarbugliata, com'era stata quella di Vivian Bellis sulle prime. Finalmente la ragazza rispose: «Oh, George... voglio dire, signor Meister! Ho avuto tanta paura. Lei dov'è?».

George glielo spiegò, con non molto tatto a quanto pareva, poiché quand'ebbe finito la ragazza strillò di nuovo, e poi tornò a farfugliare.

George sospirò, e chiese: «C'è nessun altro in casa? Maggiore Gumbs? Signorina McCarthy? Mi sentite?».

Qualche minuto più tardi due serie di suoni bizzarri cominciarono quasi simultaneamente. Quando divennero coerenti, non vi fu nessun problema a identificare le voci.

Gumbs, il massiccio militare professionista, dalla faccia rossa, urlò: «Perché diavolo non guarda dove va, Meister? Se non avesse provocato quella frana, non ci troveremmo in questo pasticcio!».

La signorina McCarthy, che aveva una faccia bianca e cupa, la mandibola sporgente e gli occhi color fango, disse freddamente: «Meister, tutto questo verrà scritto nel rapporto. Tutto».

 

Risultò che soltanto Meister e Gumbs avevano conservato l'uso dei propri occhi. Tutti e quattro possedevano qualche controllo muscolare, malgrado Gumbs fosse il solo ad aver fatto qualche serio tentativo d'interferire con la locomozione di George. La signorina McCarthy, ma George non ne fu affatto sorpreso, era riuscita a conservare un paio di orecchie funzionanti.

Ma Vivian Bellis era rimasta cieca, sorda e muta tutto il pomeriggio e la notte. Le uniche terminazioni sensoriali che era stata in grado di usare erano state quelle della pelle, del tatto, del caldo e del freddo, e del dolore. Non aveva udito niente, visto niente, ma aveva percepito ogni singola foglia o stelo contro cui avevano strisciato, il freddo impatto di ogni goccia di pioggia, e il dolore causato dal morso del mostro dentato. L'opinione che George aveva di lei salì di parecchi punti quando lo apprese. Era rimasta terrorizzata ma non si era lasciata prendere dall'isterismo e dalla follia.

Risultò inoltre che nessuno di loro respirava e nessuno era consapevole di un battito cardiaco.

A George non sarebbe piaciuto niente di meglio che continuare quella discussione, ma gli altri tre erano uniti nel credere che quanto era loro accaduto dopo che erano finiti dentro a quel mostro fosse molto meno importante che trovare il modo di venirne fuori.

«Non possiamo uscir fuori»dichiarò George. «Per lo meno, non ne vedo nessuna possibilità allo stato attuale delle nostre conoscenze. Se potessimo...»

«Ma dobbiamo uscirne!» gridò Vivian.

«Torneremo all'accampamento» disse la signorina McCarthy, con freddezza. «Immediatamente. E lei spiegherà al Comitato della Lealtà per quale motivo non è tornato non appena ha ripreso conoscenza».

«Esatto» intervenne Gumbs, imbarazzato. «Se lei, Meister, non può far niente, forse gli altri tecnici potranno fare qualcosa».

Meister spiegò pazientemente la sua teoria sul tipo d'accoglienza che con tutta probabilità avrebbero loro riservato le guardie del campo. La mente acuta della McCarthy individuò una falla nel suo ragionamento: «Si è fatto crescere le gambe, e i peduncoli per gli occhi, stando alla sua stessa testimonianza. Se non ha mentito, può benissimo farsi crescere anche una bocca. Così potrà annunciare il nostro arrivo».

«Potrebbe non essere facile» rispose George. «Non possiamo cavarcela soltanto con una bocca. Ci serviranno denti, lingua, palato duro e molle, polmoni o l'equivalente, corde vocali, qualche specie di sostituto al posto del diaframma per alimentare tutto l'apparato. Mi chiedo se sia possibile, poiché, quando la signorina Bellis è finalmente riuscita a farsi sentire, l'ha fatto con il sistema che stiamo usando adesso. Non ha...»

«Lei parla troppo» lo interruppe la signorina McCarthy. «Maggiore Gumbs, signorina Bellis, voi ed io cercheremo di formare un apparato vocale. Il primo che ci riuscirà riceverà un punto di credito nel suo curriculum. Cominciate».

 

George, essendo stato implicitamente lasciato fuori dalla gara, impiegò il suo tempo nel cercare di ripristinare il proprio udito. Gli pareva probabile che il qualunque-cosa-fosse meisterii avesse incorporata una qualche diversificazione del lavoro, dal momento che Gumbs e lui - i primi a caderci dentro - avevano conservato la propria vista senza compiere nessun particolare sforzo, mentre organi quali quelli dell'udito e del tatto erano stati lasciati agli ultimi arrivati. Ciò in teoria andava bene, e George l'approvava, ma non gli piaceva per niente l'idea che la signorina McCarthy fosse l'unica custode d'una qualunque parte di quell'apparato.

Anche se fosse stato capace di convincere gli altri due ad accettare la sua guida - e al momento la cosa pareva avere una qualche vaga possibilità - era certo che la McCarthy non avrebbe mollato. E poteva benissimo essere d'importanza vitale per tutti, nell'immediato futuro, avere il loro udito collegato al circuito.

Poi, fu distratto dallo scambio di commenti borbottati fra Gumbs e Vivian: «Qualche risultato?» «Non credo. E lei?», fra guaiti, ronzii e altri rumori irritanti, mentre cercavano senza successo di passare dalla comunicazione mentale a quella vocale. Alla fine la McCarthy sbottò: «Concentratevi per formare gli organi necessari, invece di ragliare come tanti asini!».

George si mise al lavoro, impiegando le stesse tecniche che aveva trovato efficaci in precedenza. Con gli occhi chiusi, immaginò che la creatura con tutti quei denti si stesse avvicinando nel buio: tap; scivolio; tap; clic... Desiderò audacemente che gli spuntasse un paio d'orecchie per poter cogliere i deboli suoni in avvicinamento. Dopo lungo tempo, gli parve di aver successo... oppure quei suoni mentali venivano inconsciamente emessi da uno degli altri tre? Clic. Scivola. Fruscia. Raschia...

George aprì gli occhi, sinceramente allarmato. E a venti metri di distanza, davanti a lui, su un basso pendio roccioso, un uomo in uniforme stava giusto emergendo da una fitta macchia di vegetazione scura simile a un canneto. Quando George sollevò i propri occhi peduncolati, l'uomo si arrestò, lo fissò, poi cacciò un urlo e sollevò il fucile.

George si mise a correre. Subito un farfugliare di voci esplose dentro di lui, e i muscoli delle sue «gambe» furono colti da spasimi incontrollabili.

«Correte, maledizione!» disse freneticamente. «C'è un soldato con un...».

Il fucile sparò con un rombo assordante e George avvertì un improvviso, orrendo dolore all'estremità inferiore della sua spina dorsale. Vivian Bellis urlò. La lotta per il possesso delle loro gambe comuni cessò e si misero a correre alla massima velocità verso il riparo d'un vicino macigno.

Il fucile ruggì di nuovo. George sentì le schegge di roccia passare con sibili stridenti attraverso il fogliame sovrastante. Poi si tuffarono giù lungo il lato del canalone, su per l'altro versante, sopra un basso poggio e dentro una foresta di alti alberi dai rami spogli.

George individuò una cavità piena di foglie e si diresse verso di essa lottando contro il desiderio di qualcun altro di continuare a correre in linea retta. Si appiattirono con un tonfo dentro la cavità e vi rimasero rannicchiati mentre tre uomini li oltrepassavano di corsa.

 

Vivian continuava a gemere. Sollevando con cautela i propri occhi peduncolati, George poté constatare che parecchie schegge frastagliate erano penetrate nella carne gelatinosa del mostro sul bordo più lontano del corpo. Erano stati molto fortunati. A quanto pareva, il colpo li aveva mancati di poco, e questo era giustificato soltanto dal fatto che il soldato aveva sparato mentre scendeva di corsa il pendio contro un bersaglio mobile - e aveva spezzato il macigno alle loro spalle.

Guardando meglio, George osservò qualcosa che stimolò il suo interesse professionale. L'intera superficie del mostro pareva in lenta e continua fermentazione, minuscoli crateri si aprivano e si chiudevano come se la carne stesse bollendo... soltanto che qui le bolle d'aria non si aprivano la strada a forza verso l'esterno, ma venivano risucchiate sotto la superficie e premute giù verso l'interno.

Poteva anche vedere, in profondità, sotto la superficie di quel corpo gigantesco a forma di lente, quattro vaghi grumi di materia scura che dovevano essere i cervelli, vivi, di Gumbs, di Vivian Bellis, della signorina McCarthy... e di lui, Meister.

Sì, ce n'era uno che si trovava proprio sotto i suoi occhi peduncolati. Era una cosa davvero strana, rifletté George, guardare il proprio cervello. Sperò, con il tempo, di riuscire ad abituarcisi.

I quattro grumi scuri erano disposti molto vicini gli uni agli altri, formando un quadrato quasi perfetto al centro del grosso corpo lenticolare. Le corde spinali, appena visibili, s'irradiavano verso l'esterno partendo dal centro.

Un disegno... una sorta di schema, pensò George. La creatura era concepita per usare più d'un sistema nervoso. Li disponeva in maniera ordinata, con i cervelli verso l'interno per offrir loro una maggiore protezione, e forse anche per un altro motivo. Forse esisteva anche un meccanismo che permetteva la cooperazione consapevole fra i passeggeri: una matrice che in qualche modo promuoveva la crescita di cellule di comunicazione fra i cervelli separati. Se era così, ciò avrebbe giustificato il loro immediato successo con la telepatia. George desiderò acutamente di poter penetrare nell'intimo e scoprire il modo in cui funzionava.

La sofferenza di Vivian stava diminuendo. Era il cervello diametralmente opposto al suo, e aveva subito la maggior parte dell'effetto delle schegge di roccia. Ma adesso i frammenti stavano affondando lentamente attraverso la sostanza gelatinosa del mostro. Osservandoli con attenzione, George si avvide appunto della loro lenta discesa. Una volta che fossero arrivati sul fondo, sarebbero stati espulsi, come senza alcun dubbio era stato per le parti indigeribili dei loro vestiti e della loro attrezzatura.

George si chiese distrattamente quale degli altri due cervelli fosse quello della McCarthy, e quale il cervello di Gumbs. La risposta risultò facile: alla sinistra di George, quando guardò dietro di sé, verso il centro della protuberanza, c'erano un paio di occhi azzurri al livello della superficie. Avevano palpebre in apparenza sviluppate usando la sostanza del mostro, ma ispessite e opache.

Alla sua destra, George riuscì a distinguere due minuscole aperture, che si estendevano per pochi centimetri dentro il corpo, le quali potevano essere soltanto le orecchie della signorina McCarthy. George avvertì istintivamente l'impulso di provare a vedere se fosse possibile di farci cadere dentro del terriccio.

Comunque, la questione se tornare o no all'accampamento era stata risolta, almeno per il momento. La signorina McCarthy non disse nient'altro sulla necessità di sviluppare una serie di organi vocali, anche se George era sicuro che intendesse continuare nei tentativi.

Non pensava che avrebbe avuto successo. Qualunque fossero i meccanismi che permettevano di compiere questi cambiamenti della struttura del corpo, dei dilettanti come loro potevano riuscirci soltanto sotto l'azione di considerevoli pressioni emotive, e anche in questo caso soltanto per cose relativamente semplici che comportavano una nuova struttura per volta. E, come aveva già detto alla McCarthy, gli organi vocali umani erano straordinariamente vari e complicati.

 

A George venne in mente che la parola avrebbe potuto essere ottenuta creando una sottile membrana che servisse da diaframma, e una camera d'aria dietro di essa, con una serie di muscoli per produrre le vibrazioni necessarie e modularle. Però tenne per sé l'idea, giacché non voleva tornare al campo.

George era un tipo raro: uno scienziato effettivamente adatto al proprio lavoro, che l'amava per quello che era. In questo momento si trovava nel mezzo del più potente strumento di ricerca che fosse mai esistito nel suo campo: un organismo trasformante con l'osservatore all'interno di esso, capace di riordinare la propria struttura e di osservare i risultati, capace di concepire teorie sulle funzioni e sperimentarle sui tessuti di quello che era a tutti gli effetti il proprio corpo - capace di costruire nuovi organi, nuovi adattamenti all'ambiente!

George si vedeva all'apice d'una enorme piramide di nuove conoscenze e alcune delle possibilità che intravedeva lo facevano sentire umile e lo sgomentavano.

Non poteva tornare indietro, anche se fosse stato possibile farlo, senza venire ucciso. Se soltanto ci fosse caduto dentro da solo... No, in tal caso gli altri lo avrebbero tirato fuori, uccidendo il mostro.

Sentiva che c'erano troppi problemi che esigevano una soluzione tutti allo stesso tempo. Era difficile concentrarsi, la sua mente continuava a perdere la messa a fuoco in maniera tale da farlo infuriare.

Vivian, il cui dolore era cessato poco prima, ricominciò a gemere. Gumbs le gridò qualcosa bruscamente. La signorina McCarthy imprecò contro entrambi. George sentì di aver sopportato quasi il massimo di quanto poteva accettare, imprigionato insieme a tre idioti i quali non avevano altro buonsenso se non quello di mettersi a litigare fra loro.

«Aspettate un momento» intervenne. «Vi sentite tutti allo stesso modo? Irritati, nervosi? Come se aveste lavorato per sessanta ore di fila e foste troppo stanchi per dormire?»

«La smetta di parlare come un annuncio videotrasmesso» replicò Vivian con rabbia. «Non abbiamo forse abbastanza guai senza dover...»

«Abbiamo fame» la interruppe George. «Non ce ne siamo resi conto perché non abbiamo più gli organi che di solito segnalano la fame. Ma l'ultima cosa mangiata da questo corpo siamo stati noi,e questo è accaduto un'intera giornata fa. Dobbiamo trovare qualcosa da ingerire, e presto, direi».

«Buon Dio, ha ragione» disse Gumbs. «Ma se questo coso mangia soltanto la gente... voglio dire...»

«Non aveva mai incontrato gente come noi fino a quando non siamo atterrati» rispose George, secco. «Qualunque proteina andrà bene».

Si mise in movimento in quella che sperava fosse la direzione che avevano seguito finora - diametralmente opposta al campo. Per lo meno, pensò, se avessero frapposto abbastanza distanza fra loro, si sarebbero smarriti completamente.

 

III

 

Uscirono dagli alberi e scesero il lungo pendio di una valle, sopra un ispido tappeto di foglie morte, fino a quando non raggiunsero un corso d'acqua nel quale un esile filo di corrente scorreva ancora. Nel punto più basso della sponda, in parte nascosto da macchie di arbusti scheletrici, George vide un gruppo di animali che assomigliavano vagamente a maiali in miniatura. Ne informò gli altri e cominciò ad avanzare cautamente in quella direzione.

«Da che parte soffia il vento, Vivian?» chiese. «Riesci a sentirlo?»

«No» lei rispose. «Ci riuscivo prima quando stavamo discendendo il pendio... Comunque, credo che adesso ci soffi contro».

«Bene, forse riusciremo ad avvicinarci senza che se ne accorgano».

«Ma non mangeremo degli animali,vero?»

«Sì, che mi dice, Meister?» intervenne Gumbs. «Non dico di essere un tipo schizzinoso, ma dopo tutto...»

George, che si sentiva anche lui un po' schizzinoso - come tutti gli altri, era stato allevato con una dieta di lieviti e proteine sintetiche - ribatté con impazienza: «Che altro possiamo fare? Lei ha gli occhi, no? Può vedere che qui è autunno. Autunno dopo una calda estate, se è per questo. Alberi spogli, ruscelli in secca. O mangiamo carne, o restiamo a digiuno... oppure preferisce dar la caccia agli insetti?»

Gumbs, scosso fin nell'intimo, borbottò per un po', ma alla fine si arrese.

Visti da vicino, gli animali apparvero meno porcini e perfino meno appetitosi di prima. Avevano corpi magri, segmentati, grigio-rosei, quattro corte zampe, orecchie a sventola, e musi smussati simili a scimitarre con i quali grufolavano, facendo di tanto in tanto saltar fuori qualcosa dal terreno che poi inghiottivano sbattendo le orecchie.

George ne contò trenta, raggruppati molto vicini in un piccolo spazio di terreno sgombro fra i cespugli e il corso d'acqua. Si muovevano lentamente, ma le loro corte zampe apparivano potenti: George immaginò che fossero in grado di correre molto velocemente quando ce ne fosse stato bisogno.

Avanzò a poco a poco, tenendo bassi i peduncoli degli occhi, fermandosi all'istante tutte le volte che una delle bestie sollevava lo sguardo. Avanzando con crescente cautela, si era accostato a una decina di metri da quello più vicino, quando la signorina McCarthy disse all'improvvro: «Meister, le è venuto in mente di chiedersi come faremo a mangiare questi animali?».

«Non sia sciocca» replicò lui, irritato. «Basterà che...» E si azzittì, perplesso.

Il metodo normale di assimilazione di quelle creature cessava di funzionare non appena avevano un inquilino? Avrebbero dovuto sviluppare denti, esofago e tutto il resto dell'apparato digerente? Impossibile: prima sarebbero morti di fame. Ma d'altro canto - dannazione a quella sensazione di confusione nella testa! - il processo di assimilazione non avrebbe dovuto bloccarsi a un punto ben preciso, per impedire che l'inquilino venisse digerito insieme al primo pasto?

«Allora?» volle sapere la McCarthy.

George sapeva che quell'ipotesi era sbagliata, ma non avrebbe saputo spiegare perché. Ed era un pensiero chiaramente spiacevole. E, cosa ancora peggiore, se il pasto fosse diventato l'inquilino, e l'inquilino il pasto?

L'animale più vicino sollevò la testa, e quattro minuscoli occhi rossi fissarono direttamente George. Le orecchie cadenti si rizzarono di colpo, vigili. Non era il momento per elaborare ipotesi.

«Ci ha visto!» gridò George mentalmente. «Correte!»

Un istante prima giacevano immobili nell'ispida erba secca; l'istante successivo erano schizzati in avanti, in una fulminea planata, con la mandria che fuggiva galoppando dritta davanti a loro. Le natiche della bestia più vicina si approssimavano sempre più, lanciate in balzi impetuosi. La raggiunsero e con un volteggio vi furono sopra.

Volgendo un occhio all'indietro, George vide che giaceva immobile sull'erba: privo di sensi o morto.

Ne abbatterono un altro. L'anestetico pensò lucidamente George. Un solo tocco è sufficiente. E un altro, e un altro ancora. Certo che possiamo digerirli,pensò, con sollievo. Dev'essere selettivo, tanto per cominciare, altrimenti non avrebbe separato i nostri tessuti nervosi.

Quattro a terra. Sei a terra. Altri tre insieme mentre la mandria s'ingolfava fra l'ultimo tratto del folto d'alberi e la ripida sponda del fiume. Poi, altri due che avevano tentato di tornare indietro. E poi altri quattro che si erano staccati dal grosso, uno dopo l'altro.

 

Per non correre rischi, George tornò indietro all'inizio della fila e infilò il corpo del mostro sotto la prima carcassa.

«Si rannicchi giù, Gumbs» disse. «Dobbiamo scivolargli sotto... basta così. Lasci sporgere fuori la testa».

«E perché?» sbraitò il militare.

«Non vorrà che ci troviamo il suo cervello qui con noi, non è vero? Non sappiamo quanti ne possa accogliere questo affare. Potrebbe addirittura piacergli questo più dei nostri. Ma non credo che si darà la pena di conservare il resto del sistema nervoso, se faremo attenzione a non mangiare la testa.»

«Oh!» esclamò Vivian.

«Mi scusi, signorina Bellis» disse George, contrito. «Non dovrebbe essere troppo spiacevole, tuttavia, se non permetteremo che ci dia fastidio. Non è come se avessimo le papille gustative, oppure...»

«Sì, sì, d'accordo» fece Vivian Bellis. «Soltanto, per favore, non parliamone».

«Direi proprio che non è il caso» intervenne Gumbs. «Un po' più di tatto, non le pare, Meister?».

Accettando questo rimprovero, George rivolse la sua attenzione alla carcassa che giaceva sulla superficie glabra del mostro, fra la sua sezione e quella di Gumbs. Stava affondando, in maniera appena visibile, nella carne. Una nube di opacità si stava diffondendo intorno ad essa.

Quando fu quasi scomparsa, e il collo era stato reciso, procedettero all'animale successivo. Questa volta, dietro suggerimento di George, ne presero a bordo due insieme. Gradualmente il loro umore irritabile cominciò a sfumare; cominciarono a sentirsi contenti e a proprio agio, e George scoprì che gli era possibile pensare in maniera logica, senza lasciarsi sfuggire particolari vitali.

Erano arrivati alla loro ottava e nona portata, e George era impegnato in un'intricata serie di congetture relative al sistema circolatorio del mostro, quando la signorina McCarthy interruppe il lungo silenzio per annunciare:

«Adesso ho messo a punto un modo che ci permetterà di tornare al campo senza pericolo. Cominceremo subito».

 

Colto di sorpresa e sgomento, George ruotò gli occhi verso il quadrante del mostro occupato dalla McCarthy. Dal bordo sporgeva qualcosa di filaccioso e articolato che assomigliava a... ma sì, lo era!... a un braccio e a una mano riconoscibili ma grotteschi. Mentre George guardava, quelle dita grumose armeggiarono con un filo d'erba e lo tirarono, strappandolo dal terreno.

«Maggiore Gumbs!» ordinò la McCarthy. «Sarà suo compito localizzare le seguenti cose quanto più rapidamente possibile. Primo, una superficie adatta alla scrittura. Suggerisco una larga foglia, di color chiaro, secca ma non friabile, oppure un albero dal quale possa venir staccata facilmente un'ampia sezione di corteccia. Secondo, un pigmento. Senza alcun dubbio lei sarà in grado di trovare delle bacche che forniscano un succo adatto. Se così non fosse, andrà bene anche il fango. Terzo, un ramoscello o una canna da usarsi come penna. Una volta che mi avrà guidato verso tutti questi oggetti, li userò per scrivere un messaggio che descriverà per sommi capi la nostra attuale situazione. Lei leggerà il risultato e mi farà notare eventuali errori, che poi io correggerò. Una volta che il messaggio sarà completato, torneremo con esso al campo, ci avvicineremo durante la notte, e lo depositeremo in un luogo ben visibile. Poi ci ritireremo fino allo spuntar del giorno, e una volta che il messaggio sarà stato letto, ci avvicineremo di nuovo. Cominci, maggiore».

«Oh, sì, bene» fece Gumbs. «Dovrebbe funzionare, soltanto... immagino che abbia congegnato qualche mezzo per reggere la penna, signorina McCarthy».

«Sciocco!» lei replicò, aspra. «Ho fabbricato una mano, naturalmente».

«Bene, in questo caso, certamente. Vediamo, credo che per prima cosa possiamo tentare in questo folto...». Il loro corpo comune produsse un sobbalzo in quella direzione.

George resistette. «Un momento» intervenne disperato. «Per lo meno, abbiamo il buon senso di terminare questo pasto prima di andarcene. Non c'è nessun modo di sapere quando ne potremo fare un altro».

McCarthy volle sapere: «Quanto sono grandi queste creature, maggiore?».

«Sono lunghe una sessantina di centimetri, direi».

«E ne abbiamo consumato nove, giusto?»

«Poco più di otto» la corresse George. «Queste due sono finite solo a metà».

«In altre parole» disse la McCarthy, «abbiamo mangiato due di questi animali a testa. Dovrebbero essere sufficienti. Non le pare, maggiore?».

George insisté, con grande fervore: «Signorina McCarthy, lei sta pensando in termini di esigenze alimentari umane, mentre questo organismo ha un diverso indice metabolico e una massa almeno tre volte più grande di quella di quattro esseri umani. Mettiamola così: noi quattro insieme avevamo una massa di circa trecento chilogrammi, e questa creatura, neppure venti ore dopo averci ingurgitati, aveva fame di nuovo. Bene, questi animali non possono pesare più di venti chilogrammi a testa a una gravità normale... e stando al suo piano, noi dovremmo resistere fin dopo l'alba di domani».

«Sì, c'è qualcosa di vero in quanto ha detto» ammise Gumbs. «Sì, nell'insieme, signorina McCarthy, credo che faremo meglio a nutrirci fintanto che possiamo. Con questa velocità, non dovremmo impiegare più di un'altra mezz'ora».

«D'accordo. Fate quanto prima possibile, comunque».

Avanzarono sul successivo paio di vittime. Il cervello di George lavorava furiosamente. Non serviva mettersi a discutere con la McCarthy. Se soltanto fosse riuscito a convincere Gumbs, allora la Bellis sarebbe passata con la maggioranza... forse. Era l'unica speranza che aveva.

«Gumbs» disse, «ha pensato un po' a quello che potrebbe accaderci una volta che saremo tornati?»

«Non è il mio mestiere, sa. Lo lascio ai tecnici come lei».

«No, non è questo che voglio dire. Supponiamo che lei sia il comandante di questa squadra, e quattro altre persone siano cadute in questo organismo, al nostro posto...»

«Cosa? Cosa? Non la seguo».

George glielo ripeté con pazienza.

«Sì, vedo cosa vuol dire. E allora?»

«Quali ordini darebbe?»

Gumbs ci rifletté sopra un momento. «Affiderei la faccenda alla sezione biologica, suppongo».

«Non pensa che potrebbe ordinarne la distruzione come possibile minaccia?»

«Buon Dio, suppongo che, sì, potrei. No, ma, vede, faremo molta attenzione a ciò che diciamo nel messaggio. Faremo notare che siamo un esemplare prezioso, e così via. Da maneggiare con cura».

«D'accordo» replicò George. «Supponga che funzioni. E poi? Dal momento che questo esce dal suo mestiere, glielo dirò io. Con nove probabilità su dieci la sezione biologica ci classificherà come possibile arma biologica nemica. Ciò significa, per prima cosa, che verremo sottoposti a un interrogatorio in piena regola, e non devo certo descriverlo a lei...»

«Maggiore Gumbs» s'intromise la signorina McCarthy con voce stridula. «Meister verrà giustiziato per slealtà alla prima occasione. Le è proibito parlare con lui se non vuol subire la stessa punizione».

«Ma non può impedirgli di ascoltarmi» insisté George con voce tesa. «Come seconda cosa, Gumbs, preleveranno dei campioni. Senza anestesia. Alla fine, o ci distruggeranno ugualmente, oppure ci manderanno fino al nostro avamposto fortificato più vicino per ulteriori studi. Allora diverremo proprietà della Federazione, Gumbs. Faremo parte della categoria top-secret, e siccome nessuno di quelli del Servizio Segreto oserà mai liberarci, lì rimarremo».

«Gumbs, questo è un esemplare prezioso, ma non servirà mai a niente né a nessuno se torneremo al campo. Qualunque cosa scopriremo su di esso, anche se si trattasse di conoscenze in grado di salvare miliardi di vite, anche questo sarà considerato top-secret, e non andrà mai al di là delle mura del Servizio Segreto... Se spera ancora che loro possano tirarla fuori di qui, si sbaglia. Qui non è questione di innesti di arti: tutto il suo corpo è stato distrutto,Gumbs, tutto tranne il suo sistema nervoso e gli occhi. Il solo nuovo corpo che avremo sarà quello che ci costruiremo noi».

«Maggiore Gumbs» disse la signorina McCarthy, «credo che abbiamo sprecato abbastanza tempo. Cominci a cercare i materiali che mi servono».

 

Per un attimo, il maggiore Gumbs rimase silenzioso e il corpo collettivo non si mosse.

Poi Gumbs disse: «Signorina McCarthy... ufficiosamente, s'intende... c'è un punto su cui vorrei la sua opinione. Prima di cominciare. Vale a dire, lei crede che saranno in grado di mettere insieme un qualche tipo di corpo per noi? Voglio dire, un tecnico dice una cosa, un altro dice il contrario. Capisce a cosa sto mirando?»

George stava osservando sempre più inquieto il nuovo arto della signorina McCarthy. Continuava a flettersi ritmicamente e, ne era quasi sicuro, stava diventando via via più grande. Le dita armeggiavano in mezzo all'erba secca, cogliendo prima un singolo filo, poi due insieme, e alla fine un intero ciuffo. Adesso, la McCarthy disse: «Non ho nessuna opinione, maggiore. La domanda è irrilevante. Il nostro dovere è quello di ritornare al campo. Questo è tutto quello che ci serve sapere».

«Oh, sono completamente d'accordo con lei su questo punto» assentì Gumbs. «E inoltre» aggiunse, «non esiste davvero nessun'altra alternativa, no?»

George, fissando una delle protuberanze simili a dita visibili sotto il bordo del mostro, stava fervidamente desiderando che diventasse un braccio. Ma temeva di aver cominciato con troppo ritardo.

«L'alternativa» disse George, «è continuare a rimanere come siamo. Anche se la Federazione dovesse occupare questo pianeta per un secolo, ci saranno pur sempre dei posti che non verranno mai esplorati. Lì saremo al sicuro».

«Volevo dire» proseguì Gumbs, come se avesse fatto una pausa per riflettere, «un tizio non può isolarsi del tutto dalla civiltà, non è vero?» La sua voce aveva un tono pensieroso.

Ancora una volta George sentì che il corpo del mostro si muoveva verso il folto della vegetazione, e ancora una volta resistette. Poi si sentì sopraffatto quando un'altra serie di muscoli si unì a quelli di Gumbs. Tremolando, muovendosi come un granchio, qualcosa-o-qualcos'altro meisterii si mosse di mezzo metro. Poi si fermò, sotto sforzo.

«Io le credo, signor Meister... George» disse Vivian Bellis. «Non voglio tornare indietro. Dimmi cosa vuoi che faccia».

«Lo stai facendo benissimo in questo momento» la rassicurò George dopo essere rimasto senza parole per un istante. «Soltanto... se riuscirai a far crescere un braccio, credo che la cosa potrà esserci utile».

«Adesso noi sappiamo qual è la situazione» disse la McCarthy a Gumbs.

«Sì. Esatto».

«Maggiore Gumbs» proseguì la McCarthy, in tono deciso, «lei si trova dalla parte opposta alla mia, credo».

«Davvero?» fece Gumbs, dubbioso.

«Non importa. Credo di sì. Ora, Meister si trova alla sua destra o sinistra?»

«Sinistra, questo almeno lo so. Riesco a vedere i suoi occhi peduncolati con la coda del mio occhio».

«Molto bene». Il braccio della McCarthy si sollevò con un frammento appuntito di roccia stretto nelle dita globulose.

 

Inorridito, George lo vide piegarsi all'indietro attraverso la curva del corpo del mostro. La lunga punta, aguzza come quella di un coltello, sondò incerta la superficie tre centimetri al di sopra dell'area del suo cervello. Poi il pugno descrisse un guizzante movimento su e giù, e George si sentì trapassare da una lancinante stilettata di dolore.

«Non ancora abbastanza lungo, credo» disse la McCarthy. Fletté il braccio, poi lo ritrasse. «Maggior Gumbs, dopo il mio prossimo tentativo, lei mi dirà se nota qualche reazione negli occhi peduncolati di Meister».

Il dolore stava ancora pulsando lungo i nervi di George. Con un occhio semiaccecato, osservò il braccio embrionale che stava crescendo, troppo lentamente, sotto il bordo. Con l'altro occhio fissò, affascinato, il braccio della McCarthy allungarsi lentamente verso di lui.

D'un tratto si rese conto che, anche se cresceva in maniera visibile, non gli si avvicinava più. Al contrario, cosa incredibile, pareva perdere terreno.

La carne del mostro stava scorrendo via sotto di esso, espandendosi in entrambe le direzioni.

La McCarthy colpì di nuovo con forza rabbiosa. Questa volta il dolore fu meno acuto.

«Maggiore?» chiese. «Qualche risultato?»

«No» rispose Gumbs, «no, credo proprio di no. Comunque, pare che ci stiamo spostando un po' in avanti, signorina McCarthy».

«Un ridicolo errore» ribatté lei. «Veniamo spinti indietro a forza. Faccia più attenzione, maggiore».

«No, davvero» protestò Gumbs. «Vale a dire, ci stiamo muovendo verso il folto. Avanti per me, indietro per lei».

«Maggiore Gumbs, io sto andando avanti, lei sta andando indietro».

George scoprì che avevano ragione tutti e due. Il corpo del mostro non era più circolare: si stava espandendo lungo il proprio asse. La lieve traccia di una concavità stava diventando visibile al centro. Anche sotto la superficie c'era movimento.

Adesso i quattro cervelli formavano un rettangolo e non un quadrato.

Anche la posizione delle colonne spinali era cambiata. La sua e quella di Vivian parevano trovarsi dov'erano prima, ma adesso quella di Gumbs passava sotto il cervello della McCarthy e viceversa.

Avendo aumentato la sua massa di qualcosa come duecento chili, il qualcosa-o-qualcos'altro meisterii si stava scindendo in due individui - separando pulitamente i suoi inquilini, due per parte. Gumbs e Meister in una metà. La McCarthy e la Bellis nell'altra.

 

George si rese conto che la volta successiva che questo fosse accaduto, ogni prodotto della scissione sarebbe stato ridotto a un singolo cervello - e la volta ancora successiva, uno dei nuovi individui nati da ciascuna coppia sarebbe stato un mostro nella condizione originaria, quiescente, mimetizzato, in attesa che qualcuno ci cascasse sopra.

Ma ciò significava che, come la comune ameba, questo affascinante organismo era immortale, salvo incidenti. Semplicemente cresceva e si divideva.

Non gli inquilini, però, sfortunatamente. I loro tessuti cellulari si sarebbero consumati e avrebbero finito per morire.

Oppure no? Il tessuto nervoso umano non si rigenerava, ma neppure proliferava come avevano fatto il suo e quello della McCarthy; né alcun tessuto umano produceva nuove cellule con tanta rapidità da giustificare i suoi occhi peduncolati o il braccio della signorina McCarthy.

Non c'era nessun dubbio in proposito: non era possibile che qualcuno dei nuovi tessuti potesse essere umano; era tutto contraffatto, prodotto dal mostro attingendo alla propria sostanza secondo lo schema strutturale presente nelle cellule originali più vicine. Ed era una contraffazione perfetta: i nuovi tessuti si saldavano con quelli vecchi, gli assoni si accoppiavano con le dendriti, i muscoli si contraevano o si rilassavano secondo gli ordini.

E perciò, là dove le cellule nervose si consumavano, potevano venir sostituite. Alla fine l'ultima cellula umana sarebbe scomparsa, l'inquilino umano sarebbe diventato completamente mostro: ma «una differenza che non fa differenza non è differenza». A tutti gli effetti l'inquilino sarebbe pur sempre stato umano ed immortale.

Salvo incidenti.

O un assassinio.

La signorina McCarthy stava dicendo: «Maggiore Gumbs, lei è ridicolo. La spiegazione è ovvia. A meno che lei non mi stia deliberatamente ingannando, e non saprei immaginarne la ragione, allora i nostri sforzi per muoverci in direzioni opposte stanno lacerando questa creatura».

Era evidente che la McCarthy stava confondendo la sua geometria. Che la confondesse pure... l'avrebbe tenuta sbilanciata fino a quando la scissione non fosse stata completata. No, questo era del tutto inutile: lui era già fuori della sua portata e si stava allontanando sempre più. Ma Vivian Bellis? Il suo cervello e quello della McCarthy erano semmai più vicini di prima...

 

Cosa doveva fare? Se avesse avvertito la ragazza, ciò non avrebbe fatto altro che attirare l'attenzione della McCarthy su di lei prima del tempo.

D'un tratto, si rese conto che non rimaneva molto tempo. Se fra i cervelli si era sviluppato un qualche collegamento fisico che aveva reso possibili le comunicazioni, quelle cellule non avrebbero potuto resistere ancora a lungo: la distanza fra le due coppie di cervelli stava crescendo costantemente. Doveva impedire alla McCarthy di scoprire come loro quattro sarebbero stati accoppiati.

«Vivian!» la chiamò.

«Sì, George?»

«Ascolta, non siamo noi che stiamo lacerando questo corpo. Si sta scindendo in due. È così che si riproduce. Tu ed io saremo in una metà, Gumbs e la McCarthy nell'altra» mentì in maniera convincente. «Se non ci daranno nessun fastidio, potremo andare dove ci pare e piace».

«Oh, sono così contenta!» che voce calda aveva...

«Sì» disse George, nervosamente, «ma potremmo trovarci obbligati a combatterli: sta a loro decidere. Perciò, fatti crescere un braccio,Vivian».

«Ci proverò» rispose lei, incerta.

La voce della McCarthy si sovrappose a quella di Vivian. «Maggiore Gumbs, dal momento che ha gli occhi, toccherà a lei il compito di assicurarsi che quei due non scappino. Nel frattempo suggerisco che anche lei si faccia crescere un braccio».

«Sto facendo del mio meglio» rispose Gumbs.

Perplesso, George lanciò un'occhiata verso il basso, oltre il proprio braccio semiformato. Là, quasi fuori della sua vista, una protuberanza carnosa compariva da sotto l'orlo della sezione di Gumbs! Il maggiore ci aveva lavorato in segreto, tenendolo nascosto... ed era già meglio sviluppato del suo!

«Oh... oh» fece Gumbs a un tratto. «Guardi qua, signorina McCarthy, Meister l'ha menata per il naso. L'ha imbrogliata, capisce. Furbo, devo dire. Insomma, lei ed io non saremo nella stessa metà. Come potremmo esserlo? Ci troviamo sui lati opposti di questo maledetto affare. Sarete insieme lei e la signorina Bellis, e io sarò con Meister».

Il mostro stava decisamente restringendosi nel mezzo. Le colonne spinali avevano ruotato, lasciando un consistente spazio libero fra loro nel centro.

«Sì» disse la McCarthy con voce debole. «Grazie,maggiore Gumbs».

«George» giunse la voce spaventata di Vivian, lontana e fioca, «cosa devo fare?»

«Fatti crescere un braccio!» le urlò.

Non vi fu nessuna risposta.

 

IV

 

Irrigidito, George seguì con lo sguardo il braccio della McCarthy, il frammento di roccia ancora stretto alla sua estremità, sollevarsi e roteare verso sinistra, teso al massimo sopra la superficie ribollente del mostro. Fece in tempo a vedere che si alzava per calarsi poi di nuovo, rabbiosamente: appena il tempo di pensare, Ancora corto, grazie a Dio... è il braccio destro della McCarthy, è più lontano dal cervello di Vivian di quanto lo era dal mio; il tempo di rendersi finalmente conto che non poteva proprio aiutare Vivian prima che la McCarthy allungasse il braccio di quei pochi centimetri ancora necessari. La scissione era completata soltanto a metà, eppure non poteva spostarsi dove avrebbe voluto essere più di quanto un gemello siamese avrebbe potuto girare intorno al proprio fratello.

Poi finì il tempo che aveva a disposizione. Un movimento appena intravisto lo avvertì. Guardò dietro di sé e vide una pseudomano grumosa e distorta che cercava di ghermirgli gli occhi peduncolati.

D'istinto sollevò la propria, strinse il polso dell'altro e vi si tenne disperatamente aggrappato. Era una volta e mezza le dimensioni della sua, e i muscoli erano così potenti che, malgrado la sua leva fosse migliore, non riusciva a costringerla a retrocedere o comunque a tenerla distante. Riusciva soltanto a fare in modo che il sistema continuasse ad oscillare avanti e indietro, aggiungendo la sua forza a quella di Gumbs, cosicché questi finisse sempre fuori bersaglio.

Gumbs cominciò a variare la forza e il ritmo dei suoi movimenti, cercando di coglierlo di sorpresa. Un grosso dito sfiorò la base di uno dei suoi occhi peduncolati.

«Mi spiace, Meister» disse Gumbs. «Niente di personale, capisce. Detto fra noi (uff!) non mi piace molto quella McCarthy... ma (ugh! stavolta c'ero quasi riuscito) da come la vedo io, devo badare a me stesso. Voglio dire (ugh!) se non lo faccio io, chi lo farà? Capito cosa voglio dire?»

George non rispose. Cosa stupefacente, non aveva più paura, né per sé, né per Vivian; era semplicemente, e in maniera travolgente, estatica, monomaniaca, infuriato. Una forza che sgorgava da chissà dove si stava diffondendo nel suo braccio. Concentrandosi con ferocia, pensò, Più grande! Più forte! Più lungo! Più braccio!

Il braccio crebbe. Aggiunse visibilmente sostanza a se stesso, si allungò, s'ispessì, si gonfiò di muscoli. Ma anche il braccio di Gumbs faceva lo stesso.

Cominciò a sviluppare un altro braccio. Così fece Gumbs.

Tutt'intorno a lui, la superficie del mostro ribolliva con violenza. E George si rese conto che la massa lenticolare della creatura si stava sensibilmente rimpicciolendo. Il suo curioso sistema respiratorio era inadeguato; la creatura stava cannibalizzando se stessa, distruggendo i propri tessuti per compensare la differenza.

Quanto poteva diventar piccola e continuare a sostentare due inquilini umani?

E di quale cervello si sarebbe sbarazzata per primo?

Non ebbe la possibilità di poterci riflettere. Frugando nel terreno con la sua seconda mano, Gumbs non era riuscito a trovare qualcosa che gli servisse da arma. Adesso, con un improvviso sussulto, fece ruotare tutto il loro corpo.

La scissione era completa.

Quel pensiero riportò alla mente di George Vivian e la McCarthy. Corse il rischio e lanciò un'occhiata d'una frazione di secondo dietro di sé; vide soltanto un tumulo ovoidale anonimo, e riportò indietro lo sguardo giusto in tempo per vedere il pugno semisviluppato di Gumbs sollevare un lungo ramo morto dalla punta acuminata e puntarlo, con un movimento omicida, contro i suoi occhi.

L'orlo della sponda del fiume si trovava a un metro di distanza sulla sinistra. George lo raggiunse con un singolo balzo improvviso. Il loro corpo comune scivolò, barcollò, rimase in equilibrio precario, con le mani che cercavano disperatamente di aggrapparsi da qualche parte... e rotolò oltre, precipitando in una nuvola di polvere e di sassi lungo l'erto pendio fino a schiantarsi sul fondo con un tonfo carnoso.

L'universo fece un ultimo, immane giro intorno a loro, poi si acquietò. Semiaccecato, George cercò la presa che aveva perso, trovò il polso e lo strinse.

«Oh, Signore» esclamò Gumbs. «Sono ferito, Meister. Su, vada avanti, uomo, finisca il lavoro, per favore. Non sprechi tempo».

George lo fissò con sospetto, senza rilasciare la presa. «Cosa le succede?»

«Sono paralizzato. Non posso muovermi».

George vide che erano caduti sopra un piccolo macigno, uno dei molti che si trovavano sparsi sul letto del fiume. Il macigno era grosso modo conico; vi erano stesi sopra, e la punta del cono si trovava direttamente sotto la colonna spinale di Gumbs, a pochi centimetri dal cervello.

«Gumbs, potrebbe non essere così brutta come pensa. Se potrò mostrarle che non lo è, è disposto ad arrendersi e a porsi ai miei ordini?»

«Cosa vuol dire? La mia colonna spinale è schiacciata».

«Lasci perdere per il momento. Lo farà o non lo farà?»

«Ebbene, sì» si dichiarò d'accordo Gumbs. «In effetti, lei è molto generoso, Meister. Ha la mia parola, per quello che vale».

«D'accordo» commentò George. Con grande sforzo, riuscì a smuovere il loro corpo dal macigno. Poi sollevò lo sguardo sul pendio giù dal quale erano rotolati. Troppo ripido; avrebbe dovuto trovare una via più facile per risalire. Si girò e si avviò verso est, procedendo parallelo al sottile ruscello che scorreva al centro del letto del fiume.

«Cosa c'è, adesso?» chiese Gumbs, qualche istante dopo.

«Dobbiamo trovare una strada che ci riporti fino in cima» spiegò Meister con impazienza. «Potrei ancora essere in grado di aiutare Vivian».

«Ah, sì. Stavo pensando a me stesso, temo, Meister. Se non le dispiace dirmelo, qual è il danno?»

 

Non poteva essere ancora viva, stava pensando George, scoraggiato, ma se vi fosse stata la più piccola possibilità...

«Sta bene» gli disse. «Se lei si trovasse ancora nel suo vecchio corpo, quella sarebbe una ferita fatale, oppure significherebbe una debilitazione permanente. Ma non qua dentro, in questo corpo. Lei può riparare se stesso con la stessa facilità con cui può farsi ricrescere un nuovo arto».

«Stupido da parte mia non averci pensato» disse Gumbs. «Ma questo significa forse che stavamo sprecando il nostro tempo cercando di ucciderci a vicenda?»

«No. Se lei fosse riuscito a schiacciarmi il cervello, credo che la creatura l'avrebbe digerito, e quella sarebbe stata la mia fine. Ma salvo cose drastiche come questa, credo che siamo immortali».

«Immortali? Ma questo cambia parecchio l'aspetto della faccenda, no?»

La sponda stava diventando un po' più bassa, e in un punto, dove il terreno scabro era fittamente disseminato di macigni, s'innalzava una scarpata che dava l'impressione di poter venir scalata. George cominciò a salirla.

«Meister» si fece udire Gumbs un attimo dopo.

«Cosa vuole?»

«Ha ragione, sa... avverto già di nuovo delle sensazioni. Senta, ma c'è qualcosa che questa bestia non possa fare? Voglio dire, per esempio, ritiene che possiamo rimetterci insieme com'eravamo, con tutte le... appendici, e così via?»

«È possibile» rispose George, secco. Era un pensiero che gli aveva frullato nei recessi della mente, ma non se la sentiva di discuterne con Gumbs proprio in quel momento.

Erano arrivati a metà strada, risalendo il pendio.

«Bene, in questo caso» proseguì Gumbs, «questo affare ha delle possibilità militari,sa. L'uomo che portasse una cosa del genere direttamente al Dipartimento della Guerra, praticamente si sarebbe già fatto una splendida carriera, no?»

«Una volta che ci saremo scissi» gli disse George, «lei potrà fare quello che vorrà».

«Ma dannazione» fece Gumbs, con un tono irritato nella voce, «questo non andrà affatto bene».

«Perché no?»

«Perché» disse Gumbs, «potrebbero trovar lei». La sua mano si sollevò di colpo, staccò dal suolo un piccolo sasso incastrato sotto un enorme macigno, prima che George potesse fermarlo.

Il macigno sopra di loro tremò, s'inclinò e si sporse pesantemente verso l'esterno. George, che si trovava direttamente sotto di esso, scoprì di non potersi muovere né avanti né indietro.

Sentì Gumbs che diceva: «Mi spiace», con quello che suonava un genuino rincrescimento. «Ma lei conosce il Comitato della Lealtà. Semplicemente, non posso correr rischi».

 

Il macigno parve impiegare un'eternità per rovesciarsi e cadere. George tentò altre due volte, con tutte le sue forze, di spostarsi dalla sua traiettoria. Poi, d'istinto, protese le braccia sotto di esso.

Il macigno lo colpì.

George sentì le proprie braccia che si rompevano come ramoscelli, e vide profilarsi un grigiore che cancellò il cielo; avvertì un impatto simile a quello di un maglio che fece tremare il suolo sotto di lui.

Udì un tonfo, come qualcosa che si spiaccicasse.

Ed era ancora vivo. Questo fatto stupefacente lo tenne occupato a lungo dopo che il fracasso del macigno si fu spento nel silenzio in fondo al pendio. Poi, alla fine, guardò giù alla sua destra.

La resistenza delle sue braccia irrigidite, pur spezzandosi, era stata sufficiente a far leva sul macigno quel tanto che era bastato per spostarlo di una trentina di centimetri. La metà destra del mostro era in rovina, appiattita e infranta. Riuscì a vedere qualche chiazza di molle materia grigia, che adesso si stava fondendo con la massa translucida verde-bruna che stava rifluendo lentamente, ricomponendosi.

In venti minuti, gli ultimi resti d'una colonna spinale superflua erano stati assorbiti e il mostro si era ricomposto riassumendo la sua normale forma lenticolare, e il dolore di George stava diminuendo. Entro altri cinque minuti, le sue braccia risanate erano sufficientemente robuste da poter essere usate.

Inoltre, avevano una forma e un colore più convincenti di prima: i tendini, le unghie, perfino le sottili rughe della pelle, erano in ordine. In circostanze normali ciò avrebbe fatto piombare George in riflessioni sognanti per ore e ore. Adesso, nella sua impazienza, se ne accorse appena. Si arrampicò fino in cima alla sponda.

A una trentina di metri di distanza un corpo gibboso verde-bruno come il suo giaceva immobile sull'erba secca.

Naturalmente, conteneva un solo cervello. Quale?

Quasi certamente quello della signorina McCarthy; Vivian non aveva avuto una sola possibilità. Ma allora, come mai non c'era nessuna traccia visibile del braccio della McCarthy?

Scoraggiato, George girò intorno alla creatura per una ispezione più ravvicinata.

 

Sul lato più lontano, incontrò due occhi castano scuro, con un aspetto stranamente incompleto. Si misero a fuoco su di lui dopo un istante, e tutto il corpo vibrò leggermente, spostandosi verso di lui.

Gli occhi di Vivian erano stati castani: George lo ricordava con chiarezza. Occhi castani dalle folte ciglia scure su un volto sottile e affusolato. Ma ciò dimostrava qualcosa? Di quale colore erano stati gli occhi della McCarthy? Non riusciva a ricordarlo. George si avvicinò di più, sperando fervidamente che il qualcosa-o-qualcos'altro meisterii fosse abbastanza progredito da accoppiarsi, invece di cercar di divorare i membri della propria specie...

I due corpi si toccarono, aderirono e cominciarono a fondersi insieme. Osservando, George vide il processo di scissione invertirsi. Da un paio di forme lenticolari, le carni aliene si fusero in un corpo solo a forma di sella, poi di ovoide, e ancora una volta di lente. Il suo cervello e quello di lei si accostarono, le colonne spinali s'incrociarono ad angolo retto.

E fu soltanto allora che notò una stranezza circa l'altro cervello. Pareva essere più solido e compatto del suo, i contorni più nitidi.

«Vivian?» chiese preoccupato. «Sei tu?»

Nessuna risposta; tentò di nuovo e di nuovo.

Alla fine: «George! Oh, caro... vorrei piangere, ma pare che non sia capace di farlo».

«Niente ghiandole lacrimali» disse George, automaticamente. «Oh, Vivian!»

«Sì, George?» di nuovo quella voce calda.

«Cos'è successo alla signorina McCarthy? Come sei riuscita...»

«Non lo so. Se n'è andata, vero? È da molto tempo che non la sento più».

«Sì» confermò George, «se n'è andata. Vuoi dire che non lo sai? Dimmi cos'hai fatto».

«Be', volevo farmi crescere un braccio, perché tu mi hai detto di farlo, ma pensavo di non aver abbastanza tempo. Così, invece, ho sviluppato un cranio. E queste cose per coprire la mia colonna spinale...»

«Vertebre». Perché mai non l'ho pensato anch'io! pensò scontento. «E poi?»

«Adesso, adesso sì, credo, sto piangendo» lei disse. «Sì, piango. È un tale sollievo... E poi, dopo questo, più niente. Mi stava ancora facendo del male, ed io sono rimasta immobile e ho pensato che sarebbe stato meraviglioso se lei non fosse stata qui con me. E dopo un po', non c'era più. E poi mi sono fatta crescere degli occhi per cercarti».

A George parve che la spiegazione fosse ancora più sconcertante dell'enigma. Guardandosi intorno alla vaga ricerca d'una illuminazione, vide qualcosa che non aveva notato prima. A due metri sulla sua sinistra, appena visibile fra l'erba, c'era un grumo grigiastro dall'aspetto umidiccio con l'accenno d'una estensione fibrosa che partiva da esso.

Doveva esserci, decise all'improvviso, qualche meccanismo nel qualcosa-o-qualcos'altro meisterii per liberarsi di quegli inquilini che mancavano di adattarsi: cervelli che entravano in stato catatonico, o isterico, o in preda ad una frenesia suicida. Una clausola di sfratto nel contratto d'affitto.

In qualche modo Vivian era riuscita a stimolare quel meccanismo - a convincere l'organismo che il cervello della McCarthy non soltanto era superfluo, ma anche pericoloso... «tossico» era il termine esatto.

Era la suprema ignominia. La signorina McCarthy non era stata digerita. Era stata defecata.

 

Verso il tramonto, dodici ore più tardi, avevano percorso parecchia strada. Avevano raggiunto un accordo molto gradevole per entrambi. Avevano dato la caccia a un'altra mandria di pseudo-maiali per il loro pasto di mezzogiorno. Non una sola volta avevano litigato o si erano anche soltanto irritati a vicenda. E per ragioni del tutto diverse - da parte di George a causa del normale metabolismo del mostro, che era del tutto insoddisfacente quando si trattava di muoversi in fretta, e da quella di Vivian, giacché si rifiutava di credere che un qualunque uomo potesse essere attratto da lei nelle sue attuali condizioni - avevano iniziato un serio tentativo di riplasmare se stessi.

Le prime prove erano state straordinariamente difficili, le successive sorprendentemente facili. Più e più volte erano stati costretti a lasciarsi ripiombare nello stato di ameba, vittime di qualche organo dimenticato o malfunzionante, ma ogni insuccesso aveva appianato la strada successiva. Alla fine erano riusciti a ergersi senza fiato, ma respirando, ondeggianti ma stabili, faccia a faccia: due abbozzi preliminari di esseri umani che si erano fatti da sé.

Avevano anche posto trenta chilometri fra loro e l'accampamento della Federazione. In piedi sulla cresta di un'altura, e guardando verso sud attraverso la valle poco profonda, George riuscì a distinguere un fioco, funereo bagliore: le macchine minerarie, che masticavano i minerali metallici per alimentare i fabbricatori i quali avrebbero vomitato le letali navi spaziali.

«Non torneremo mai laggiù, non è vero?» lo implorò Vivian.

«No» dichiarò George, fiducioso. «Faremo in modo che siano loro a scoprire noi. Quando lo faranno, resteranno molto più sconcertati di noi. Possiamo trasformarci in qualunque cosa vogliamo, ricordalo».

«Voglio che tu mi voglia, così sarò bellissima».

«Più bella di quanto lo sia mai stata qualsiasi donna» lui fu d'accordo. «E avremo entrambi una superintelligenza. Non vedo perché no. Possiamo dirigere la nostra crescita in qualunque maniera scegliamo di fare. Saremo più che umani».

«Mi piacerebbe» disse Vivian.

«A loro no. Le McCarthy e i Gumbs e tutti gli altri non avranno mai una sola possibilità contro di noi. Noi siamo il futuro».

C'era un'altra cosa, una piccola faccenda, ma importante per George, giacché gli dava la sensazione di aver realizzato qualcosa di suo, alla fine di una fase e all'inizio di una nuova. Aveva finalmente completato il nome della sua scoperta.

Non era affatto qualcosa-o-qualcos'altro meisterii.

Era Spes hominis - la speranza dell'uomo.

 

Disco di solitudine

Saucer of Loneliness

di Theodore Sturgeon

Galaxy Science Fiction , febbraio

 

Accogliamo un'altra volta Theodore Sturgeon in queste pagine con non poca tristezza, giacché è morto soltanto da poche settimane quando queste parole vengono scritte. Malgrado sia rimasto in gran parte silenzioso in questi ultimi quindici anni, la sua opera ha contribuito a dar profilo e dignità a questo genere letterario, ed è certo che gli sopravviverà. Sentiamo molto la tua mancanza, Ted. Theodore Sturgeon scrisse soltanto pochi romanzi durante la sua carriera, ma uno di essi, pubblicato nel 1953, è una delle opere fondamentali nel nostro campo. More than Human (La Nascita del Superuomo) è un'espansione del suo romanzo breve apparso su Galaxy nel 1952, «Baby is Three», ed è un eccellente studio della psicologia gestalt e un'escursione analitica nella parapsicologia, con questo gruppo di bambini «collegati» che formano l'inizio di una nuova umanità, quella dell'uomo-gestalt. Il 1953 fu anche al centro di uno dei periodi più produttivi di Ted Sturgeon, e «Disco di solitudine» è la prima delle sue due storie che compaiono in questo volume. - M.H.G.

 

Ancora una volta, questo è un pezzo «umorale». Ted era particolarmente bravo nel realizzarli, e quando era in piena forma, ciò che scriveva era pura poesia. C'è un rischio in questo, naturalmente, giacché se puntate sulla poesia e mancate il bersaglio anche soltanto di un po', potete ritrovarvi tra le mani un tremendo pasticcio. Personalmente non ho mai avuto il coraggio, o il talento necessario, per provarci, e ho mirato con molta attenzione ad una prosa adatta allo scopo, e niente più. È la difficoltà di colpire il centro - un centro molto piccolo - del bello scrivere, che può spiegare il fatto che Ted avesse dei perìodi di siccità di tanto in tanto. Giacché, se perdete quella mira alla Robin Hood e nient'altro vi soddisfa, allora dovete appendere il vostro arco per un po'. Potrebbe anche spiegare perché mai Ted abbia scrìtto così pochi romanzi. È difficile conservare un 'atmosfera per parecchie centinaia di pagine, e Ted non era disposto a scendere a compromessi. E, guardiamo in faccia alla realtà, sono i romanzi a dare fama, successo e soldi. Le raccolte di racconti non ricevono lo stesso caloroso abbraccio dagli editori; non vanno altrettanto bene una volta pubblicate; non rimbalzano sulle pareti dei vari diritti associati con la stessa frequenza. E così Ted non ha mai raggiunto la fama e il successo e i soldi che meritava. Ma il lettore-buongustaio sapeva di lui, e credo che lui ne fosse consapevole. - I.A.

 

Se è morta, pensai, non la troverò mai in questa bianca marea di luce lunare sul mare bianco, con la risacca che ribolle dentro e sopra la pallida sabbia come un grande shampoo. Quasi sempre i suicidi che si pugnalano o si sparano nel cuore si denudano con cura il petto; lo stesso strano impulso spinge di solito i suicidi per annegamento ad affrontare nudi il loro destino.

Un po' prima, pensai, oppure più tardi, e ci sarebbero state ombre a causa delle dune e del pulsante respiro della schiuma. Adesso la sola vera ombra era la mia, qualcosa di minuscolo appena sotto di me, ma nera abbastanza da nutrire la tenebra dell'ombra in un dirigibile.

Un po' prima, pensai, e forse sarei riuscito a vederla mentre si trascinava con passo affaticato fino alla spiaggia d'argento, alla ricerca di un posto abbastanza solitario per morire. Un po' più tardi, e le mie gambe si sarebbero ribellate a quella corsa strascicata in mezzo alla sabbia, quella sabbia che non offriva resistenza e, facendolo impazzire, non voleva aiutare un uomo in corsa.

Allora le mie gambe cedettero, e d'un tratto m'inginocchiai - non per lei, non ancora - soltanto per respirare. C'era un tale impeto intorno a me: il vento e gli spruzzi aggrovigliati, e colori su colori e sfumature di colori che non erano affatto colori ma variazioni del bianco e dell'argento. Se una luce come quella fosse stata suono, sarebbe parso come il rumore del mare sulla sabbia e se le mie orecchie fossero state occhi, avrebbero visto una luce come quella.

Mi rannicchiai là, rantolando nel suo turbinio, e una marea mi colpì, bassa e veloce, salendo e allargandosi come i petali di un fiore là dove mi toccava le ginocchia, inzuppandomi poi fino alla cintura, spumeggiando e frangendosi su di me. Mi premetti le nocche sugli occhi così che si aprissero di nuovo. Il mare mi era alle labbra col sapore delle lacrime e tutta la bianca notte urlava il suo pianto.

E lei era là.

 

Le sue bianche spalle erano una curva più alta fra i pendii della schiuma. Doveva aver percepito la mia presenza - forse avevo gridato - giacché lei si voltò e mi vide là, inginocchiato. Si accostò i pugni alle tempie e il suo volto si contorse, e lanciò un gemito lacerante di furore e disperazione, e poi si tuffò verso il mare e affondò.

Mi sbarazzai delle scarpe con un calcio e corsi in mezzo ai flutti urlando, cercando, afferrando lampi di bianco che diventavano sale e gelo fra le mie dita. La superai con un tuffo, e il suo corpo mi colpì al fianco mentre un'onda mi sferzava il viso facendoci ruzzolare entrambi. Rantolai nell'acqua densa e schiumosa, aprii gli occhi sotto la superficie e vidi una luna distorta, bianco-verdastra, sfrecciare via mentre mi giravo. Poi vi fu di nuovo un risucchio nella sabbia sotto i miei piedi e la mia mano sinistra si trovò aggrovigliata fra i suoi capelli.

L'onda che si ritirava la rimorchiò via, e per un momento lei rifluì dalla mia mano come il getto di vapore da un fischio. In quell'istante fui certo che era morta, ma mentre si adagiava sulla sabbia, si dibatté e si mise in piedi.

Mi colpì l'orecchio umido e indurito, e un tremendo, acuto dolore mi trafisse la testa. Diede uno strattone, si lanciò via da me, e durante tutto questo tempo la mia mano rimase intrappolata in lei. Non avrei potuto liberarla neppure se avessi voluto. All'onda successiva si girò verso di me, mi picchiò e mi artigliò, e finimmo nell'acqua profonda.

«Non... non... non so nuotare!» urlai, così lei tornò ad aggrapparsi a me.

«Lasciami sola!» lei urlò con voce stridula. «Oh, buon Dio, perché non puoi lasciar...»(dissero le unghie) «... mi...»(dissero le unghie) «... sola!»(disse il suo piccolo pugno duro).

Così le tirai giù la testa per i capelli, premendogliela contro le bianche spalle; e col taglio della mia mano libera la colpii due volte al collo. Lei tornò a galleggiare. La trascinai fino alla spiaggia.

La trasportai a un punto dove una duna si frapponeva fra noi e le ampie fauci fragorose del mare, e il vento soffiava da qualche parte sopra di noi. Ma la luce era ugualmente fulgida. Le sfregai i polsi e le accarezzai il viso e dissi: «Tutto va bene» e, «Ecco!» e alcuni nomi che mi apparivano in un sogno che facevo molto, molto tempo prima che avessi mai sentito parlare di lei.

Giacque immobile sulla schiena, con il respiro che le sibilava fra i denti, le labbra atteggiate a un sorriso che i suoi occhi torti e serrati, ancor più chiusi dalle rughe, trasformavano in tortura e non in un sorriso. Stava bene, e cosciente per lunghi periodi, ma il suo respiro continuava a sibilare e gli occhi chiusi a torcersi.

«Perché non mi hai lasciata sola?» chiese alla fine. Aprì gli occhi e mi guardò. Era talmente infelice che non c'era spazio per la paura. Chiuse di nuovo gli occhi e aggiunse: «Tu sai chi sono».

«Lo so» annuii.

Cominciò a piangere.

 

Aspettai, e quando smise di piangere, c'erano ombre tra le dune. Era passato molto tempo.

Lei disse ancora: «Tu non sai chi sono. Nessuno sa chi sono».

Replicai: «Eri su tutti i giornali».

«Quello!» Riaprì lentamente gli occhi e il suo sguardo si spostò sopra il mio viso, sulle mie spalle, si arrestò sulla mia bocca, mi sfiorò gli occhi per l'attimo più breve immaginabile. Arricciò le labbra e distolse lo sguardo. «Nessuno sa chi sono».

Aspettai che si muovesse o riprendesse a parlare, e alla fine dissi: «Dimmelo».

«Tu chi sei?» mi chiese, sempre con la testa rivolta altrove.

«Qualcuno che...»

«Allora?»

«Non adesso» l'interruppi. «Più tardi, forse».

D'un tratto si rizzò a sedere e cercò di nascondersi. «Dove sono i miei vestiti?»

«Non li ho visti».

«Oh» lei fece. «Sì, ora ricordo. Li ho lasciati cadere, ci ho scalciato sopra della sabbia, proprio là dove s'inizia una duna, lisciandola, per nasconderli come se non ci fossero mai stati... Odio la sabbia. Volevo affogare nella sabbia, ma la sabbia non voleva permettermelo... Non devi guardarmi!» urlò. «Ti odierò se continui a guardarmi!» Scosse la testa da un lato all'altro, scrutando tutt'intorno. «Non posso rimanere qui così! Cosa posso fare? Dove devo andare?»

«Ecco» dissi.

Lasciò che l'aiutassi a rialzarsi, poi staccò bruscamente la mano da me, voltandomi le spalle a metà. «Non toccarmi. Allontanati da me».

«Ecco» ripetei, e scesi lungo la duna là dove s'incurvava alla luce della luna e il vento la soffiava via un po' per volta, e il suo profilo si abbassava fino a non apparire più duna ma spiaggia.

«Ecco». Indicai dietro la duna.

Finalmente mi seguì. Sbirciò oltre la duna che in quel punto le arrivava al petto, e poi in un altro punto dove le arrivava alle ginocchia. «Qua dietro?»

Annuii.

«È così buio...» Scavalcò la bassa duna e s'inoltrò nel nero dolorante di quelle ombre lunari. Si allontanò con cautela, tastando delicatamente il suolo con i piedi, tornando là, dove la duna era più alta. Affondò nel buio e scomparve. Sedetti sulla sabbia, nella luce. «Stai lontano da me» arrivò la sua voce in un soffio minaccioso.

Mi alzai e arretrai. Invisibile, immersa nelle ombre, alitò: «Non andar via». Aspettai, poi vidi la sua mano spremersi fuori dal confine netto dell'ombra. «Là» disse, «laggiù. Nel buio. Sii solo... Adesso, stanimi lontano... Sii una... voce».

Feci come mi aveva chiesto, e sedetti in mezzo alle ombre, forse a due metri da lei.

Me ne parlò... non come era stato raccontato dai giornali.

 

Quand'era accaduto, aveva avuto diciassette anni, forse. Era al Central Park, a New York, faceva troppo caldo per una giornata come quella, appena agli albori della primavera, e i pendii chiazzati di marrone avevano qua e là uno spolverio di verde dell'identica consistenza della brina di quel mattino sulle rocce. Ma la brina era scomparsa e l'erba era splendida e riempiva qualche centinaio di piedi della tentazione di lasciare l'asfalto e il cemento e di camminarci sopra.

I suoi, erano fra questi. Quel terreno in fiore era una sorpresa per i suoi piedi, come lo era l'aria per i suoi polmoni. Mentre camminava, i suoi piedi cessavano di avere scarpe, il suo corpo percepiva a stento i leggeri indumenti. Era l'unico tipo di giornata che, da sola, poteva indurre una persona allevata in città a sollevare gli occhi. E lei lo fece.

Per un attimo si sentì separata dalla vita che conduceva, nella quale non c'era né fragranza, né silenzio, nella quale niente mai si conformava né veniva mai del tutto soddisfatta. In quel momento l'ordinata disapprovazione degli edifici intorno al pallido parco non poteva raggiungerla; per due, tre pulite boccate d'aria non aveva più importanza che tutto l'ampio mondo appartenesse in realtà a immagini proiettate su uno schermo; alle dee delicatamente curate dentro quelle torri d'acciaio e di vetro. Quel mondo che, per dirla in breve, apparteneva sempre, si, sempre a qualcun altro.

Così, aveva sollevato gli occhi e là, sopra di lei, c'era il disco.

Era bellissimo. Era dorato, con una rifinitura che evocava la pruina sopra un rigoglioso grappolo d'uva Concord non ancora maturo. Produceva un debole suono, un accordo formato da due note e un sibilio attutito come il soffio del vento fra le alte spighe del grano. Sfrecciava intorno come una rondine, librandosi alto e scendendo in picchiata. Girava in cerchio, scendeva e rimaneva sospeso, immobile come un pesce, luccicando. Era come tutte queste creature viventi, ma con la grazia e la bellezza degli oggetti torniti e bruniti, calibrati, fatti a macchina con estrema precisione.

A tutta prima non aveva provato nessuno stupore, giacché questa era così diversa da qualunque altra cosa che aveva visto in precedenza da poter essere uno scherzo della vista, una falsa valutazione delle dimensioni e della velocità e della distanza, qualcosa che un attimo dopo avrebbe potuto rivelarsi un vivido riflesso su un aeroplano oppure l'immagine residua d'una fiamma ossidrica.

Distolse lo sguardo da esso e finalmente cominciò a rendersi conto che molta altra gente l'aveva visto... aveva visto qualcosa. La gente tutt'intorno a lei aveva smesso di muoversi e di parlare, e tutti allungavano il collo verso l'alto. Intorno a lei c'era una sfera di silenzioso stupore, e al di fuori di essa lei si rendeva conto, a stento, dei rumori della vita della città, il gigante dal respiro affannoso che non inspirava mai.

Tornò a sollevare lo sguardo. E finalmente cominciò a rendersi conto di quanto grande e lontano fosse il disco. No: piuttosto, di quanto piccolo e vicino fosse. Aveva giusto le dimensioni del più ampio cerchio che poteva delimitare con le sue due mani, e galleggiava a non più d'una cinquantina di centimetri sopra la sua testa.

 

Poi arrivò la paura. Si ritrasse e sollevò un avambraccio, ma il disco si limitò a restare sospeso là. Si piegò quanto più possibile di lato, si contorse per allontanarsi, fece un balzo in avanti, guardò dietro di sé e in alto per vedere se era riuscita a sfuggirgli. Sulle prime non riuscì a vederlo; poi, quando guardò in alto, sempre più in alto, era là, vicino e luccicante, fremente, che mormorava sommesso sopra la sua testa.

Si morse la lingua.

Con la coda dell'occhio vide un uomo che si faceva il segno della croce. L'ha fatto perché mi ha visto qui, immobile, con un'aureola sulla testa,pensò. E quella era la cosa più grande che le fosse mai capitata. Nessuno l'aveva mai guardata prima di allora, facendo un gesto di rispetto, non una volta, mai. In mezzo al terrore, al panico, alla meraviglia, il conforto di quel pensiero si annidò dentro di lei, in attesa di venir ripescato e rimirato ancora una volta nei momenti di solitudine.

Adesso il terrore era predominante, comunque. Arretrò, con lo sguardo fisso sopra di sé, muovendosi con quelli che parevano ridicoli passi di danza. Avrebbe dovuto scontrarsi con la gente. C'era gente in abbondanza lì intorno, a bocca aperta, che allungava il collo, ma non ne toccò nessuno. Si girò di scatto e scoprì, con vivo orrore, di trovarsi al centro d'un anello di folla che si accalcava tutt'intorno, indicandola. Quel mosaico d'occhi strabuzzati nel cerchio più interno spingeva sulle sue molte gambe per scostarsi il più possibile da lei.

La dolce nota musicale del disco divenne più grave. Il disco s'inclinò, discese d'un paio di centimetri o giù di lì. Qualcuno urlò e la folla fuggì via da lei in tutte le direzioni, vorticando tutt'intorno, acquietandosi ancora una volta in un nuovo equilibrio dinamico, un cerchio molto più ampio, a mano a mano che altra gente correva a ingrossarlo contrapponendosi agli sforzi della gente più all'interno per fuggire.

Il disco ronzò, e s'inclinò, s'inclinò...

Lei sgranò gli occhi, fece per gridare, cadde sulle ginocchia e il disco la colpì.

Cadde contro la sua fronte e vi si fissò. Parve quasi sollevarla da terra. Lei si drizzò sulle ginocchia, fece uno sforzo per sollevare le mani contro di esso, ma le sue braccia s'irrigidirono verso il basso, all'indietro, però le sue mani non toccarono il suolo. Per un secondo e mezzo, forse, il disco la mantenne rigida, e poi trasmise un solo estatico brivido al suo corpo e lo lasciò cadere. Lei si accasciò al suolo, il dorso delle sue cosce pesante e dolorante sui calcagni e le caviglie.

Il disco cadde accanto a lei, rotolò una volta descrivendo un piccolo cerchio, uno soltanto, intorno al proprio bordo, e giacque immobile. Giacque immobile e opaco, e metallico... indifferente e morto.

 

Confusa, anche lei giacque e fissò l'azzurro velato di grigio di quel buon cielo primaverile, e udì i fischi.

E alcune grida tardive.

E una grossa voce che tuonava scioccamente: «Fatela respirare!» Il che indusse tutti ad accalcarsi ancora più strettamente intorno a lei.

Poi non ci fu più abbastanza cielo a causa della massa abbigliata di azzurro con i suoi bottoni metallici e il taccuino rilegato in finta pelle. «Okay, okay, cos'è successo qui? State indietro, per l'amor del cielo».

E l'intrecciarsi sempre più fitto delle osservazioni, interpretazioni, commenti: «L'ha stordita». «L'ha stordita e...». «Un tizio l'ha stordita e...». «Alla piena luce del giorno questo tizio...». «Il parco sta diventando...» e così via, e sempre più tutto giacché era soprattutto importante l'eccitazione.

Qualcuno con un paio di spalle più robuste degli altri che si faceva prepotentemente vicino, anche qui un blocco di appunti, l'occhio del testimone sopra di esso, pronto a cambiare «... una bella bruna...» in «una bruna attraente» per le edizioni del pomeriggio, perché «attraente» è l'aggettivo più sciatto che possa venir consentito a qualunque donna se è presentata come vittima nelle notizie.

Lo stemma luccicante e il volto florido che si chinavano ancora di più su di lei: «Ferita grave, sorella?» E gli echi, sempre più indietro in mezzo alla folla: «Ferita grave, ferita grave, gravemente ferita, l'ha picchiata a sangue, in piena luce del giorno...» E un altro uomo ancora, magro e deciso, un gabardine nocciola, il mento con la fossetta e un'ombra di barba: «Disco volante, uhm? Okay, agente, adesso me ne occupo io».

«E chi diavolo è lei per occuparsene?»

Il lampeggiare d'un portafoglio color marrone, un volto così vicino dietro di esso, che il suo mento era premuto nella spalla del gabardine. Il volto disse, reverente e sgomento: «FBI». E anche questo si diffuse come un'increspatura sulla superficie d'un lago verso l'esterno. Il poliziotto annuì - l'intero poliziotto annuì, in una singola, ballonzolante genuflessione.

«Si faccia aiutare per sgomberare quest'area» ordinò il gabardine.

«Sì, signore!»esclamò il poliziotto.

«FBI, FBI» mormorò la folla, e vi fu più cielo da guardare sopra di lei.

Lei si rizzò a sedere, e c'era gloria sul suo viso. «Il disco mi ha parlato» lei cantò.

«Chiudi il becco, tu» esclamò il poliziotto. «Mio Dio, questa folla potrebbe esser piena di comunisti».

«Chiudi il becco anche tu» intimò il gabardine.

Qualcuno tra la folla disse a qualcun altro che un comunista aveva picchiato quella ragazza, mentre qualcun altro ancora diceva che era stata picchiata perché era comunista.

 

Lei accennò ad alzarsi, ma mani sollecite la costrinsero a sedersi di nuovo. A questo punto, c'erano trenta poliziotti lì intorno.

«Posso camminare» disse.

«Adesso stia calma» la sollecitarono.

Depositarono una barella accanto a lei, la sollevarono e la distesero sopra la barella e la coprirono con un'ampia coperta.

«Posso camminare». La stavano già trasportando in mezzo alla folla.

Una donna impallidì e voltò la testa, gemendo. «Oh, mio Dio, com'è orrendo!»

Un ometto dagli occhi tondi continuava a fissarla leccandosi interminabilmente le labbra.

L'autoambulanza. La infilarono dentro. Il gabardine era già là.

Un uomo vestito di bianco, dalle mani molto pulite: «Com'è successo, signorina?»

«Niente domande» s'intromise il gabardine. «Sicurezza».

L'ospedale.

Lei disse: «Devo tornare al lavoro».

«Si spogli» le dissero.

Poi ebbe una camera da letto tutta per sé per la prima volta nella sua vita. Tutte le volte che la porta si apriva, poteva vedere un poliziotto là fuori. La porta si apriva molto spesso per lasciar entrare il tipo di civili che erano molto ossequiosi verso i militari, e il tipo di militari che erano, comunque, perfino ancora più ossequiosi verso certi civili. Lei non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo tutta quella gente né quello che voleva. Durante ogni singola giornata le facevano quattro milioni e cinquecentomila domande. A quanto pareva non parlavano mai fra loro perché ognuno faceva le stesse domande, più e più volte:

«Come si chiama?»

«Quanti anni ha?»

«Dov'è nata?»

Qualche volta la spingevano lungo strani percorsi con le loro domande.

«Ora, suo zio. Ha sposato una donna dell'Europa Centrale, vero? Europa Centrale... dove?»

«Di quali club o organizzazioni assistenziali ha fatto parte? Ah! Adesso, a proposito della gang Rinkeydinks sulla 63.a Strada. Chi c'era davvero dietro?»

Ma più e più volte: «Cosa intendeva, quando ha detto che il disco le ha parlato?»

E lei rispondeva: «Mi ha parlato».

E loro dicevano: «E ha detto...»

E lei scuoteva la testa.

Ce n'erano parecchi che urlavano, e poi parecchi altri di gentili. Nessuno era mai stato tanto gentile con lei prima di allora, ma capì ben presto che nessuno, in realtà, era gentile con lei. Volevano soltanto fare in modo che si rilassasse, che pensasse ad altre cose, così da poterle sparare quella domanda: «Cosa intende dicendo che le ha parlato?»

 

Ben presto fu come con la mamma o a scuola o in qualunque altro posto, e lei aveva l'abitudine di rimanere seduta a bocca chiusa e lasciare che gridassero. Una volta la fecero sedere su una sedia dura per ore e ore con una luce negli occhi, lasciando che la sete la tormentasse. A casa, c'era una lunetta apribile sopra la porta della sua camera da letto e mamma aveva l'abitudine di lasciare che il bagliore della luce della cucina vi filtrasse per tutta la notte, così lei non fosse colta dagli incubi. Così, la luce non le dava fastidio.

La portarono fuori dell'ospedale e la misero in prigione. Per certe cose, era un bene. Il cibo. Anche il letto era buono. Attraverso la finestra poteva vedere un gran numero di donne che facevano ginnastica in cortile. Le venne spiegato che tutte loro avevano letti molto più duri.

«Sei una giovane signora molto importante, sai».

Dapprima la cosa fu simpatica, ma come al solito risultò che non intendevano affatto parlare con lei. Continuavano a lavorare su di lei. Una volta le portarono il disco: era dentro una grande cassa di legno chiusa da un lucchetto, e una cassa d'acciaio all'interno di questa con una serratura Yale. Pesava poco più di un chilogrammo, il disco, ma dopo che era stato così impacchettato, ci volevano due uomini per trasportarlo e quattro uomini armati per sorvegliarlo.

Le fecero recitare tutta la vicenda così com'era successa, con i soldati che tenevano il disco sospeso sopra la sua testa. Ma non era la stessa cosa. Avevano tagliato via dal disco tanti pezzetti e pezzettini, e inoltre, il disco ora aveva uno smorto colore grigio. Le chiesero se sapeva qualcosa in proposito, e per una volta lei glielo disse.

«Adesso è vuoto» disse.

L'unico col quale era disposta a parlare era un ometto con una gran pancia il quale le aveva detto, la prima volta che si erano trovati insieme soli: «Ascolti, penso che il modo in cui lei è stata trattata puzzi. Adesso cerchi di capire questo: ho un lavoro da fare. Il mio lavoro consiste nello scoprire perché non vuol dirci ciò che il disco le ha detto. Io non voglio sapere quello che il disco ha detto e non glielo chiederò mai. Limitiamoci a scoprire perché lo tiene segreto».

Scoprirlo, si rivelò un discorso di ore a parlare soltanto del fatto che lei aveva avuto la polmonite e del vaso da fiori che aveva preparato quando era in seconda elementare e la mamma aveva buttato giù per la scala antincendio, e il fatto di essere stata abbandonata a scuola e il sogno che aveva fatto reggendo un bicchiere di vino con entrambe le mani sbirciando un uomo da sopra il suo orlo...

E un giorno gli disse per quale motivo non voleva parlare di ciò che le aveva detto il disco, proprio così come le venne: «Perché ha parlato a me,e sono affari miei e di nessun altro».

Gli disse perfino dell'uomo che quel giorno si era fatto il segno della croce. Era la sola altra cosa tutta sua che aveva.

Quell'ometto era simpatico. Fu lui ad avvertirla del processo. «Non è affar mio dirglielo, ma le faranno il trattamento completo. Giudice e giuria e tutto il resto. E dica soltanto quello che vuol dire, niente di più e niente di meno, capito? E non lasci che la facciano arrabbiare. Lei ha il diritto di possedere qualcosa».

Si alzò in piedi, imprecò e se ne andò.

 

Prima venne un uomo e le parlò a lungo su come questa Terra sarebbe stata, forse, attaccata da esseri dello spazio esterno molto più forti e intelligenti di quanto fossimo noi, e forse lei possedeva la chiave per una possibile difesa. Perciò, lei doveva questo al mondo intero. E se anche la Terra non fosse stata attaccata, lei doveva pensare a quale vantaggio avrebbe dato al proprio paese nei confronti dei suoi nemici. Poi, si era messo ad agitarle il dito davanti al naso, dicendo che il modo in cui lei si comportava significava lavorare per i nemici del suo paese. E risultò che sarebbe stato lui l'uomo che l'avrebbe difesa durante il processo.

La giuria la trovò colpevole di disprezzo della corte e il giudice elencò una lunga lista di condanne che avrebbe potuto infliggerle. Gliene inflisse una, e la sospese. La rimisero in prigione per qualche giorno ancora, e, una bella giornata, la rimisero in libertà.

Sulle prime fu meraviglioso. Ottenne un lavoro in un ristorante, e affittò una camera ammobiliata. I giornali avevano parlato talmente tanto di lei che la mamma non l'aveva più voluta a casa. La mamma era ubriaca la maggior parte del tempo e talvolta metteva a soqquadro tutto il vicinato, ma aveva ugualmente delle idee parecchio rigide sulla rispettabilità, e l'essersi trovata in continuazione sui giornali per faccende di spionaggio non coincideva con il suo personale concetto di decenza. Così, mise il suo cognome di ragazza sulla cassetta della posta al pianterreno e intimò a sua figlia di non abitare mai più là.

Al ristorante incontrò un uomo che le chiese un appuntamento. La prima volta. Spese tutto quello che aveva per una borsetta rossa che si accompagnasse con le sue scarpette rosse. Non erano proprio dell'identica sfumatura, comunque erano sempre di color rosso. Andarono al cinema e, dopo, lui non tentò di baciarla o nient'altro del genere, cercò soltanto di scoprire cosa il disco volante le aveva detto. Lei non rispose. Tornò a casa e pianse tutta la notte.

Poi degli uomini entrarono e presero posto in un separé e si misero a parlare, ma s'interrompevano guardandola furiosamente tutte le volte che passava lì davanti. Parlarono al padrone, e lui venne e le disse che erano tecnici elettronici che lavoravano per il governo e avevano paura di parlare del loro lavoro mentre lei era in giro... cos'era, lei, una specie di spia o qualcosa di simile? Così, venne licenziata.

Un giorno, vide il suo nome su un juke-box. Infilò un nichelino e schiacciò quel numero. Il disco dall'inizio alla fine cantava «il disco volante che un giorno scese giù, e le insegnò un modo tutto nuovo di suonare, e quale fosse non ve lo dirò, ma mi portò fuori da questo mondo». E mentre lei ascoltava, qualcuno nel locale la riconobbe e la chiamò per nome. Quattro di loro la seguirono fino a casa, e lei dovette sbarrare la porta.

Qualche volta la lasciavano tranquilla per mesi di seguito, e poi qualcuno le chiedeva un appuntamento. Tre volte su cinque lei e il suo compagno venivano seguiti. Una volta, l'uomo col quale lei si trovava arrestò quello con cui avrebbe dovuto trovarsi. Cinque volte su cinque il suo compagno cercava di scoprire che cosa le avesse detto il disco. A volte lei usciva con qualcuno che fingeva che fosse un vero appuntamento, ma non ci riusciva molto bene.

Così, si trasferì sulla costa e trovò lavoro come addetta alle pulizie di negozi e uffici. Non ce n'erano molti da pulire, ma questo significava che almeno non avrebbe trovato troppa gente che si ricordasse il suo viso per averla vista sui giornali. Con la regolarità di un orologio, ogni diciotto mesi qualche giornalista a caccia di articoli sensazionali tirava fuori di nuovo tutta la storia in una rivista o su un supplemento domenicale. E tutte le volte che qualcuno vedeva un faro su una montagna o le luci d'un pallone sonda, ecco, sì, doveva essere per forza un disco volante, e c'era sempre qualche battuta fritta e rifritta sui dischi volanti che rivelavano i loro segreti. Allora, per due o tre settimane di seguito, lei si teneva lontana dalle strade durante il giorno.

Una volta pensò di esserci riuscita. La gente non la voleva, così cominciò a leggere. I romanzi andarono bene per un po' fino a quando non scoprì che la maggior parte di essi erano come il film - riguardavano tutti quelle graziose donnine che possedevano il mondo. Così imparò altre cose: animali, alberi. Una piccola tamia schifosa imprigionata in un reticolato la morse. Gli animali non la volevano. E agli alberi non importava niente di lei.

Poi le venne l'idea delle bottiglie. Si procurò tutte le bottiglie che poté e scrisse su tanti foglietti di carta che infilò nelle bottiglie, tappandole. Percorse miglia e miglia su e giù lungo le spiagge e gettò le bottiglie in mare quanto più lontano possibile. Sapeva che se la persona giusta ne avesse trovata una, avrebbe dato a quella persona la sola cosa al mondo che poteva esserle di aiuto. Quelle bottiglie le permisero di tirare avanti per tre anni consecutivi; chiunque deve avere un piccolo segreto tra le cose che fa.

E venne infine il momento in cui anche quello non servì più a niente. Si può continuare a cercare di essere d'aiuto a qualcuno che forse esiste; ma ben presto non si può più fingere che esista una persona del genere. Ed è tutto. La fine.

 

«Senti freddo?» le chiesi, quand'ebbe finito di raccontarmi la sua storia.

La risacca era più tranquilla e le ombre più lunghe.

«No» rispose lei, dalle ombre. D'un tratto aggiunse: «Hai pensato che fossi furiosa con te perché mi hai visto senza i miei vestiti?»

«Perché non dovresti esserlo?»

«Sai, che m'importa? Non avrei voluto... non avrei voluto che tu mi vedessi neppure in un abito da ballo o in tuta. Non è possibile coprire la mia carcassa: si vede. È sempre là, non importa come. Volevo proprio che tu non mi vedessi... che non mi vedessi del tutto».

«Io, o chiunque?»